Ewald V. Iljenkov
Lev K. Naumenko
Tre secoli di immortalità
Giornale critico della filosofia Italiana
Luglio-Dicembre 1977, anno LVI (LVIII), fasc. III‑IV, pp. 410‑426
Trecento anni fa concluse il suo cammino terrestre uno dei migliori
figli del genere umano. L’uomo, alla cui memoria sono oggi costretti ad inchinare
rispettosamente la testa persino gli avversari più radicali delle sue
idee, persino i nemici spietati di quella nobile causa, alla quale ha consacrato
la sua breve luminosa vita, i teologi e gli idealisti di ogni risma e sfumatura.
Secoli di sterili sforzi hanno convinto anche loro che non è possibile
aver ragione di Spinoza per mezzo di contumelie, di calunnie, di divieti e censure.
Ora essi tentano di vincerlo con l’arma dell’ “interpretazione”, che travisa
nel modo più grossolano il vero senso della dottrina del grande pensatore
umanista. C’è un fatto piuttosto ridicolo, ma reale. Lo stesso partito
di oscurantismo religioso, che una volta rese noto il testo della “grande scomunica”
che proibiva per sempre ai correligionari non solo di «leggere qualsiasi cosa
da lui compilata o scritta», ma persino di «trovarsi più vicino a lui
della distanza di quattro gomiti», oggi, per bocca di Ben Gurion, chiede all’umanità
l’autorizzazione di «correggere l’ingiustizia» e di annoverare il grande eretico
ed avversario di Dio tra i suoi santi...
Il leader riconosciuto del positivismo moderno Bertrand Russell
lo considerava uno dei più nobili ed affascinanti tra i grandi filosofi,
anche se riteneva che la «concezione della sostanza, sulla quale poggiava Spinoza,
è una concezione, che ai tempi nostri non possono accettare né
la scienza né la filosofia» (B. Russell, A History of Western
philosophy, New York, 1966, pp. 568-578).
Naturalmente, simili interpretazioni possono denigrare la figura
di Spinoza altrettanto poco, quanto le vecchie calunnie rivelatesi impotenti.
E quanto maggiore diventa la distanza, che ci separa nel tempo dai giorni della
sua vita, tanto più chiaramente e nettamente si [410] profila il suo autentico
volto — il volto di uno dei fondatori della scienza contemporanea, di una concezione,
in sostanza, materialistica del mondo e dell’uomo.
Si può dire senza tema di esagerare che nella dottrina di
Spinoza l’umanità ha acquistato una volta per sempre l’assiomatica chiara
ed inequivocabile di una cultura democratico-progressista, sia intellettuale
che morale. L’intelletto e la morale hanno costituito nella sua personalità
e nella sua dottrina una lega mirabile, in cui è impossibile separare
l’uno dall’altra, e questa peculiarità crea ciò, che è difficile
definire altrimenti che profonda umanità, profonda democraticità
del suo pensiero.
È difficile escogitare qualcosa di più ingiusto della
leggenda della “complessità”, della “inintelligibilità” e della
“inaccessibilità” delle tesi, che costituiscono l’essenza della dottrina
di Spinoza. In tutti i punti decisivi esse sono talmente chiare e semplici da
poter apparire piuttosto la deduzione di un’idea dall’ingenuità infantile
che il risultato dell’intenso lavoro di una mente matura e coraggiosa, stretta
nella morsa di una dura necessità, nella morsa delle più aspre
contraddizioni dell’epoca, le contraddizioni dello sviluppo della cultura borghese,
che l’accompagnano dall’inizio fino alla sua inevitabile fine: tra scienza e
religione, tra parole e fatti, tra uomo e natura, tra individuo e società
ecc.
L’edificio della sua Ethicaper la rigorosa logica della
sua costruzione ricorda l’armonioso e luminoso Partenone. È un mirabile
tempio, eretto in onore dell’uomo e dell’umanità, e tra l’altro di un
uomo assolutamente reale, terrestre, a cui non è estraneo nulla di umano,
comprese le sue debolezze, ossia la naturale limitatezza della sua natura...
Spinoza non cerca di “divinizzare” l’uomo. Egli cerca solo di capirlo così
come è. In questo è tutto il segreto di Spinoza.
Un enorme vantaggio dell’ateismo di Spinoza rispetto a qualsiasi
altra forma di “non credenza in dio”, che costituisce la forza e la saggezza
della sua strategia e tattica, è connesso, probabilmente, con quel tratto
della sua personalità e dottrina, che abbiamo definito sopra come profonda
democraticità, sincera stima dell’uomo della sua epoca reale, vivo, non
immaginario. Spinoza non cercava affatto di sbalordire il suo contemporaneo con
l’ardita formula “dio non c’è!”, perché egli si batteva non contro
le parole, che designano i pregiudizi e le superstizioni, ma contro gli stessi
pregiudizi e superstizioni nella loro essenza. Egli sbaragliava i pregiudizi, [411]
considerando con indulgenza i termini che li esprimevano. Proprio per questo
egli si rivolge ai contemporanei nell’unico linguaggio a loro accessibile: dio
c’è, ma voi, uomini, ve lo immaginate completamente diverso di come è
in realtà. Ve lo immaginate del tutto simile a voi, attribuendogli
tutto il vostro egoismo, tutta la vostra ristrettezza individuale e nazionale,
tutte le caratteristiche della vostra natura, fino alle peculiarità della
carne, arrivando fino alle assurdità più ridicole e lampanti.
Spinoza in tal modo pone la coscienza religiosa di fronte ad un’alternativa
molto spiacevole: o dio è antropomorfo, e allora è primo di tutti
gli attributi “divini”, oppure possiede tutti questi attributi, ma in tal caso
il concetto di lui deve essere sgombrato da tutte le tracce di antropomorfismo,
da qualsiasi accenno alla somiglianzà con il corpo pensante dell’uomo.
È una scomposizione autenticamente dialettica del concetto
fondamentale della teologia e della religione, che distrugge senza lasciare residui
la pietra angolare dell’etica idealistico-religiosa e della cosmologia. A dio
vengono tolti uno dietro l’altro tutti gli attributi conferitigli dalla religione,
e restituiti immediatamente al loro vero proprietario — l’uomo, e in conclusione
dio viene privato in genere di qualsiasi determinatezza e interamente fuso con
l’infinito insieme di tutte le “determinatezze”, che si escludono l’una l’altra.
In altre parole, di “dio” non resta in ultima analisi nient’altro che il nome.
Egli si trasforma in un ennesimo, e quindi superfluo sinonimo della parola “natura”,
di cui infima particella è sempre stato e resta l’uomo reale. La forza
reale e il potere della parola “dio” sugli uomini non è altro che la forza
del tutto reale della loro non conoscenza nei confronti della natura reale e
dell’ordine delle cose nello spazio cosmico, — la forza demoniaca dell’ignoranza,
la forza della mancanza di reali cognizioni dell’uomo sia sulla natura sia su
se stesso.
Di fronte a noi, naturalmente, c’è l’ateismo tanto trasparente
ed inequivocabile che lo hanno capito subito tutti — non solo i teologi istruiti,
abilissimi nella ricerca di un qualsiasi accenno di eterodossia, ma anche qualsiasi
pretino di provincia. Nessun ateo nel passato aveva suscitato da parte dei clericali
contro di sé una tale tempesta di indignazione, di odio e di contumelie.
Nell’odio contro Spinoza si unirono strettamente le forze di tutte le religioni,
manifestando in tal modo una completa unanimità nel comprendere il fatto,
che la sua dottrina rappresenta la condanna a morte non solo e non tanto [412]
di una qualche precisa religione e chiesa, quanto in generale del pensiero in
forma religiosa. Naturalmente, il furore dei clericali rivelava una sola cosa,
la loro completa impotenza di obiettare a Spinoza qualcosa nella sostanza, di
contrapporre alla sua dottrina qualcosa al di fuori delle contumelie, delle maledizioni
e delle minacce. Il nome “spinoziano” si trasformò per interi secoli in
un sinonimo di “ateo”, e ci vollero centinaia di anni, prima che le religioni
mondiali divenissero consapevoli del fatto che le grossolane contumelie all’indirizzo
di Spinoza non facevano che dar risalto alla calma forza delle sue argomentazioni,
innalzando il suo prestigio agli occhi di tutti gli uomini pensanti.
Scomponendo dialetticamente il concetto idealistico-religioso di
“dio” nelle sue componenti reali (in falsa rappresentazione della natura, da
una parte, e altrettanto falsa rappresentazione della natura dell’uomo in quanto
“parte” della stessa natura dall’altra), Spinoza formulò l’alternativa
positiva all’idea distrutta dalla sua analisi: lo studio impavido, che non conosce
ostacoli, lucidamente scientifico della natura dell’uomo in quanto “modo” originale
della natura in generale, la comprensione dialettica dell’una e dell’altra sia
nella loro unità, che nella stessa indubbia diversità all’interno
di questa unità.
È nel complesso quello stesso programma, che da allora segue
tutto lo sviluppo della cultura mondiale nelle sue migliori, autenticamente progressiste
tendenze e correnti.
Spinoza capiva perfettamente egli stesso che la realizzazione concreta
del programma da lui formulato, di perfezionamento intellettuale e morale dell’umanità,
non è una cosa tanto facile da poter sperare in una sua rapida conclusione,
perché la esauriente comprensione di tutta la natura nel suo insieme,
che includa la comprensione della natura umana in quanto parte originale di questo
infinito insieme, è conseguibile solo dalle forze unite di tutte le scienze
della natura e dell’uomo, e solo come scopo mai raggiungibile fino in fondo.
Perciò egli non affidava la soluzione di questo grandioso compito a una
sola scienza, qualunque essa fosse: la meccanica, la fisiologia o la filosofia,
ma riponeva le sue speranze solo sulla cooperazione dei loro comuni sforzi, tesi
ad una comprensione adeguata della natura infinita. Per lo stesso motivo egli
non legava mai le sue concezioni al livello esistente — a lui contemporaneo —
di sviluppo delle scienze naturali (e nello stesso modo al livello esistente
delle concezioni morali dei suoi contemporanei), comprendendo perfettamente tutta
la [413] loro limitatezza, tutta la loro «incompletezza», — e questa peculiarità
della sua posizione venne altamente apprezzata due secoli dopo da Friedrich Engels:
«Torna ad altissimo onore della filosofia di allora il fatto che non si facesse
fuorviare dal limitato stadio delle conoscenze naturali del suo tempo, il fatto
che essa — da Spinoza ai grandi materialisti francesi — mantenesse fermo il proposito
di spiegare l’universo da se stessa, lasciando alla scienza dell’avvenire la
giustificazione di dettaglio.» (F. Engels, Dialettica della natura,
in K. Marx e F. Engels, Werke, Dietz Verlag, Berlin, 1962, vol.
20, p. 315; trad. it. di L. Lombardo Radice, Editori Riuniti, Roma, 1971,
p. 42).
È del tutto evidente che è impossibile comprendere
e spiegare la filosofia di Spinoza come il risultato di una semplice «sintetizzazione»
delle scienze naturali contemporanee; essa poggiava non sul loro livello presente,
ma su quelle tendenze storico-progressiste, che non era tanto facile individuare
nell’insieme delle conoscenze di allora. Non si deve dimenticare che le scienze
naturali della sua epoca cominciavano appena a liberarsi dal potere trionfante
della teologia, che sulle menti degli studiosi della natura — anche i più
grandi — gravava ancora troppo il prestigio di un Aristotele teologizzato con
la sua concezione della finalità “immanente” nei fenomeni naturali, ovvero
della presenza di fini nella natura stessa. Gli studiosi della natura ricorrevano
ad ogni passo all’aiuto di questa concezione — essa in qualche misura li salvava
dappertutto, dove si rivelavano le evidenti lacune di una concezione puramente
meccanicistica delle cose, ovvero di un punto di vista unilateralmente matematico,
un modo astrattamente quantitativo della loro descrizione ed interpretazione.
La teleologia — ossia la forma leggermente più raffinata dello stesso
antropomorfismo, che regnava nella sfera della moralità religiosa — appariva
come una integrazione storicamente inevitabile della concezione grossolanamente
meccanicistica, una sorta di immagine rovesciata nello specchio della sua imperfezione.
Questo «elemento integrativo» era pienamente connaturato a tutto il cartesianesimo
e più tardi lo divenne a tutti gli studiosi del grande Newton.
Non è difficile comprendere quale filosofia ci avrebbe lasciato
in eredità Spinoza se avesse generalizzato semplicemente (non criticamente)
i successi delle scienze naturali del suo tempo, anche i successi autentici,
raggiunti con metodo coerentemente meccanicistico. Egli ha, invece, manifestato
una mirabile capacità critica nei confronti di questi successi, e quindi
il suo atteggiamento in linea di [414] principio negativo verso la teleologia
in generale è diventato necessariamente un atteggiamento critico verso
il meccanicismo. La giustezza del suo modo di pensare si è rivelata con
particolare acutezza nella comprensione della natura dell’uomo, nella soluzione
delle difficoltà, connesse con la dottrina cartesiana del rapporto tra
corpo e anima, e con il famigerato problema “psicofisico”.
La soluzione di questo problema nella concezione di Spinoza colpisce
anche oggi per la sua netta coerenza di principi e la mancanza di compromessi
teorici, per quella sorprendente coerenza, che ancora oggi — trecento anni dopo
— chiaramente manca a taluni psicologi e fisiologi, che riflettono sul rapporto
tra psiche e cervello, tra pensiero e stati corporei.
La soluzione di Spinoza è semplice, come è semplice
tutto ciò che è geniale.
Egli taglia il nodo gordiano del famigerato problema “psicofisico”,
intrecciato da Cartesio, con un sol colpo: tra 1’ “anima” e il corpo dell’uomo
non c’è né ci può essere alcun “rapporto” (tanto più
causale, di causa ed effetto) per il semplice motivo che non si tratta di due
“cose” diverse, che potrebbero entrare in diverse relazioni reciproche, ma della
medesima “cosa”, in due diverse proiezioni, ottenute mediante la
sua rifrazione attraverso il prisma sdoppiante della nostra “mente”.
Perciò il problema “psicofisico” nella sua impostazione
cartesiana è un problema falso, che esiste solo nell’immaginazione. Esso
viene tolto dall’ordine del giorno quale falsa formulazione di un altro problema
reale, che si risolve mediante lo studio critico delle reali peculiarità
della nostra propria mente (e più esattamente, della capacità di
immaginazione), incline a vedere due cose diverse là dove in effetti ci
sono solo due parole diverse, che significano una stessa “cosa” realmente indivisibile:
il corpo pensante.
Quindi porsi l’interrogativo sul come si “uniscono” nell’uomo 1’
“anima” e il “corpo” (stati corporei e pensiero), è altrettanto assurdo
come domandare in che modo si “unisce” al corpo il suo prolungamento. Già
la domanda stessa racchiude l’assurda supposizione che è possibile un
“corpo” senza “prolungamento”, e il prolungamento senza corpo e al di fuori del
corpo...
Il concetto del corpo pensante è la vera pietra angolare
dell’intera filosofia di Spinoza, il cuore della sua opposizione al dualismo
cartesiano, sebbene formalmente (nell’ordine dell’esposizione di questa filosofia
nella Et bica) la sua pietra angolare sia costituita dalle [415] definizioni
assiomaticamente formulate della “sostanza”, dell’ “attributo”, della “libertà”,
della “necessità”, della “causa finale” e della “eternità”.
K. Marx indicò reiteratamente questa importantissima
circostanza: «Così, sono due cose assolutamente diverse: ciò che
Spinoza considerava pietra angolare nel suo sistema, e ciò che, in realtà,
costituisce questa pietra angolare» (K. Marx e F. Engels, Werke,
cit., voi. 34, 1966, p. 506).
Non è difficile osservare che le “definizioni”, con le quali
comincia la Ethìca, in efletti sono soltanto spiegazioni dei significati,
universalmente accettati a quel tempo, di determinati termini. Una cosa del tutto
diversa è la questione se sia possibile considerare il pensiero come la
sostanza dell’animo umano (ossia della psiche reale degli uomini). Oppure
se occorre intenderlo solo come attributo — come quella cosa che solo
la nostra mente concepisce come sua essenza — della sostanza, ossia come la stessa
sostanza nella sua principale definizione. Non è difficile comprendere
(e lo avevano capito subito i contemporanei), che la mente, alla quale il pensiero
appare come la “sostanza”.dell’anima, è la “mente” pienamente reale di
Cartesio, che in questo caso aveva aderito alle posizioni dei teologi. Qui Spinoza
è estremamente categorico, valutando questa concezione come un’illusione
della nostra mente, che egli non condivide in nessun modo, sebbene ne comprenda
l’origine.
Il vero punto di partenza e il concetto fondamentale del sistema
di Spinoza, dal cui punto di vista egli reinterpreta radicalmente tutti i “concetti”
astratti della sua epoca, è una concezione della natura dell’uomo coerentemente
materialistica, concezione ancora oggi non accettata da tutti.
L’uomo — e solo l’uomo — è l’oggetto reale, del quale si
sta parlando e che Spinoza dall’inizio alla fine tiene al centro della sua ricerca
teorica. L’uomo, e solo l’uomo, è quel “soggetto reale”, di cui tutte
quelle caratteristiche postulate all’inizio senza riferimento a lui — le caratteristiche
della “sostanza”, dell’ “attributo”, del “modo” e tutto il resto — sono in effetti
definizioni astratte.
Il pensiero è la proprietà, la capacità della
materia o, come dice Spinoza, l’attributo della sostanza. In questa tesi ha trovato
espressione tutta l’essenza del materialismo “illuminato” dei secoli successivi,
incluso anche il nostro secolo; tutta la poderosa energia euristica del materialismo
è racchiusa in esso come in una molla strettamente arrotolata, come in
un concentrato di formule algebriche. [416]
Le formule di Spinoza proprio per la loro esatta determinatezza
ebbero conseguenze veramente catastrofiche per la concezione del mondo idealistico-religiosa;
esse toglievano il fondamento alle costruzioni speculative più ingegnose,
la loro pietra angolare, comune alle più grossolane e primitive superstizioni.
Esse conservano anche oggi la loro forza distruttiva verso tali costruzioni.
Ma non basta: esse escludono contemporaneamente ogni possibilità di interpretare
il “pensiero” come un particolare elemento incorporeo, che irrompe attivamente
nella “sostanza corporea” dall’esterno, per formarla alla propria maniera, ma
anche la tendenza, propria della logica di un materialismo primitivo, meccanicistico,
ad interpretare il “pensiero” come un inutile sinonimo (come una denominazione
superflua) per quei processi materiali specifici, che si svolgono nel cervello
umano, nell’angusto spazio del cranio umano. Una simile concezione — puramente
fisiologica — del “pensiero” è per Spinoza altrettanto inaccettabile e
assurda, come le fantasie dell’ “anima incorporea”.
Spinoza comprende perfettamente che non si può intendere
la “natura del pensiero”, limitandosi all’esame dei fatti che avvengono all’interno
del singolo corpo e del cervello individuale, perché in questi fatti è
solamente espresso in modo particolare qualcosa del tutto diverso, e precisamente
la “potenza delle cause esterne”, quella necessità universale, nell’ambito
della quale esistono ed agiscono (si muovono) tutti i corpi, compreso il corpo
umano.
Perciò comprendere che cosa è il “pensiero” (in quanto
capacità che distingue il “corpo pensante” dal corpo non pensante), è
possibile solo nel caso che esaminiamo il “corpo” reale all’interno del quale
il pensiero si effettua per necessità, e non per caso. Risulta essere
questo “corpo” non la ghiandola “pineale”, non il cervello e persino non il corpo
nel suo insieme, ma solo tutto l’infinito insieme di “corpi”, in cui è
incluso anche il corpo dell’uomo come una sua particella.
Determinando il pensiero come un «attributo della sostanza», Spinoza
si innalza sopra ogni rappresentante del materialismo meccanicistico e anticipa
la sua epoca perlomeno di due secoli, esprimendo in sostanza quella tesi, che
Engels più tardi formulò così: «Ma il fatto è che
il meccanicismo (anche il materialismo del XVIII secolo) non si libera dalla
necessità astratta e perciò neppure dalla casualità. Il
fatto che la materia abbia sviluppato dal suo interno il cervello pensante dell’uomo
è, per esso, un puro caso, seppure, quando accada, necessariamente condizionato
passo per passo. In realtà però è nella [417] natura della
materia progredire verso lo sviluppo di esseri pensanti, e ciò accade
perciò anche sempre necessariamente, quando ne sussistono le condizioni
(non necessariamente le stesse ovunque e sempre)» (F. Engels, Dialettica
della natura, in K. Marx e F. Engels, Werke, vol. 20, cit.,
p. 479; trad. it. cit., p. 221).
Da qui necessariamente scaturisce la conclusione che «la materia
in tutti i suoi mutamenti rimane eternamente la stessa, che nessuno dei suoi
attributi può mai andare perduto e che perciò esse deve di nuovo
creare, in altro tempo e in altro luogo, il suo più alto frutto, lo spirito
pensante, per quella stessa ferrea necessità che porterà alla scomparsa
di esso sulla terra» (Op. cit., p. 327; trad. it. cit., p. 54).
È forse necessario provare che è la riproduzione
della medesima posizione che troviamo in Spinoza? Engels sottolineò egli
stesso inequivocabilmente la completa coincidenza delle sue idee con le idee
di Spinoza su questo punto, e Plekhanov non a caso lo ricordò nel contesto
della sua controversia con i machisti: «E allora, secondo voi, — io chiesi,
— il vecchio Spinoza aveva ragione, dicendo, che il pensiero e l’estensione
di esso non sono altro che due attributi della stessa sostanza? — Naturalmente,
— rispose Engels, — il vecchio Spinoza aveva assolutamente ragione» (G.V. Plekhanov,
Opere, voi. XI, M.L., 1928, p. 26).
È tra l’altro importante non tanto la coincidenza, quanto
il fatto che Engels vede precisamente qui il margine, che separa in linea di
principio il materialismo “illuminato” dal materialismo meccanicistico, impotente
ad affrontare la dialettica delle relazioni reciproche tra il “pensiero” e la
materia e che finisce inevitabilmente nel vicolo cieco del famigerato “problema
psicofisico”.
La “natura del pensare”, non può essere assolutamente concepita
ad immagine dell’ “intelletto e della volontà” del singolo individuo,
ossia secondo la logica dell’antropomorfismo, seguita nei ragionamenti su questo
tema sia dai teologi sia dai cartesiani. È proprio il contrario — l’intelletto
e la volontà di un singolo uomo vanno compresi come espressione particolare
e specifica (e non obbligato riamente “adeguata”) di questa capacità universale,
“in un certo senso infinita” necessariamente connaturata non ad un singolo corpo,
ma a tutto l’infinito insieme di tali corpi, uniti in una totalità e che
costituirebbero, secondo l’espressione di Spinoza, «un unico corpo».
Questa capacità universale appartiene ad un singolo corpo
solo in quanto è capace di esistere e di agire in accordo con la necessità,
che lo collega con tutti gli altri corpi, e non conformemente ad una [418] natura
particolare, ad una forma particolare e ad una disposizione particolare delle
particelle, di cui è composto.
In altre parole, il pensiero per la sua natura consiste precisamente
nella capacità di effettuare reali azioni corporee secondo la logica di
qualsiasi altro corpo, e non secondo la logica della specifica struttura
di quel corpo, che effettua tali azioni. In ciò è tutta l’essenza
dello spinozismo, tutta l’essenza di quella radicale svolta, che Spinoza ha attuato
nella storia del pensiero filosofico, una decisiva svolta verso il materialismo.
Il corpo è un corpo pensante nella misura in cui
è capace di costruire energicamente le proprie azioni e effettuarle secondo
schemi, che si accordano con gli schemi (con la forma e la disposizione) di tutto
l’insieme di corpi del mondo circostante, con gli schemi della necessità
universale.
Naturalmente, la cosa è assai difficile per un uomo reale,
terrestre; tuttavia, siccome egli pensa, egli agisce precisamente così,
e non altrimenti. E nella stessa misura, in cui egli agisce in quanto corpo pensante,
cresce anche la misura della sua libertà. Si può dire che il problema
della libertà in Spinoza, si identifica fin dall’inizio con il problema
della capacità del “corpo pensante” (della “cosa pensante”) di esistere
e di agire in accordo con il necessario ordine di tutte le cose nel mondo circostante.
Su questo punto la dottrina di Spinoza rappresenta anche un’antitesi
radicale al cartesianesimo, e precisamente una antitesi materialistica. Agli
occhi di Cartesio la “libertà” si presenta dappertutto come un semplice
sinonimo di “libertà della volontà”, ossia della capacità
d’azione dell’ “anima”, assolutamente indipendente da tutto l’insieme di circostanze
materiali. È, nel complesso, la stessa concezione del problema della “libertà”
che più tardi predicarono sia Kant che Fichte, e tutti i loro seguaci,
compresi gli esistenzialisti contemporanei.
Secondo Spinoza invece tale concezione della “libertà” è
di nuovo solo un’illusione della nostra mente (limitata), alla quale non corrisponde
nulla nella realtà, e che non dipende da essa. Questa illusione sorge
in modo assai semplice: a causa della ignoranza di quelle stesse cause reali,
che hanno spinto il “corpo pensante” ad agire proprio così, e non altrimenti.
La presunta “libertà della volontà” appare in tal
modo solo una maschera, dietro la quale si nasconde in effetti la piena non libertà,
ovvero la necessità nella forma di costrizione esterna, tanto più [419]
invincibile, che il “corpo pensante” non solo non vede, ma decisamente
non vuole vedere le cause esterne, nella cui schiavitù si trova.
Secondo Spinoza la libertà consiste nella capacità
del corpo pensante di spingere se stesso all’azione, tenendo attivamente conto
di tutto l’insieme di circostanze “corporee” e delle condizioni di tale azione,
invece di obbedire ciecamente alla spontaneità di immediate circostanze
casuali. Il “corpo pensante”, che abbraccia con il suo sguardo non solo le “cause”
immediate — che agiscono su di esso direttamente e nel dato momento — ma anche
le più remote, si rivela capace di agire nonostante la pressione di situazioni
casuali di breve durata, ed in accordo con la comune necessità integrale
del mondo esterno, in accordo con la “ragione”.
Non è difficile comprendere quanto più ampia, più
profonda e, soprattutto, realistica si rivela una simile impostazione del problema
della “libertà” rispetto a quella cartesiana. Spazzando via in modo categorico
l’interpretazione della libertà come “libertà della volontà”,
Spinoza formula precisamente la concezione della libertà in quanto agire
reale (“corporeo”) dell’uomo, che determina .attivamente (ovvero consapevolmente)
e gli obiettivi e i mezzi delle sue azioni in accordo con la comune — globale,
e non solo immediata — concatenazione obiettiva delle cose.
Va precisato che non si tratta di “fatalismo”, accusa che fu rivolta
e continua ad essere rivolta a Spinoza e alla sua dottrina da parte dei suoi
avversari, che pensano cartesianamente, e che anche adesso interpretano il problema
della “libertà” esclusivamente come “libertà della volontà”,
ossia come fenomeno all’interno di un singolo “corpo pensante”, come “assoluta
indipendenza” della psiche dell’individuo dal mondo esterno.
Non è privo di interesse rilevare che oggi i filosofi borghesi
rivolgono lo stesso rimprovero di “fatalismo”, di negazione della “libertà
dell’individuo” non solo a Spinoza, ma anche al marxismo, e, tra l’altro, ricorrendo
agli stessi argomenti e motivazioni teoriche. Così nel Dizionario filosofico
di Heinrich Schmidt, uscito nella Germania occidentale (trad. ridotta dal tedesco,
M., Edizioni di letteratura straniera, 1961) noi leggiamo questa definizione
della “libertà”:
«La libertà (Freiheit) è la possibilità di
comportarsi a proprio piacimento. La libertà è la libertà
della volontà. La volontà è nella sua sostanza sempre una
libera volontà... Il marxismo ritiene la libertà una finzione:
in effetti l’uomo pensa e agisce sempre a seconda [420] degli stimoli e dell’ambiente
(vedi situazione), e ad esercitare il ruolo principale nel suo ambiente sono
le relazioni economiche e la lotta di classe». E così via, nello stesso
spirito.
Naturalmente, tale “libertà” — in quanto “libertà
della volontà” — viene respinta egualmente sia da Spinoza che dal marxismo,
ponendo al posto di questa presunta libertà la libertà reale, raggiungibile
soltanto attraverso l’azione, conforme alle tendenze generali di mutamento delle
“situazioni” storiche mondiali, e non con le pressioni delle situazioni immediate,
empiricamente presenti sul “corpo” e la “psiche” dell’individuo.
Precisamente Spinoza, per la prima volta, formulò la definizione
della libertà come un agire conformemente alla necessità universale
del mondo, perché solo un tale agire rende l’uomo padrone, e non un cieco
servo delle “circostanze” e assicura in ultima analisi il superamento efficace
degli ostacoli verso un obiettivo ragionevolmente prefisso, mentre che la concezione
cartesiana della libertà quale libertà della volontà della
singola persona, quale possibilità di fare “ciò che aggrada”, porta
a far sì che questa “libera volontà” si scontri con la resistenza
per essa invincibile della “potenza delle cause esterne” e nello scontro con
esse appare assolutamente imponente e nniente affatto “libera”.
Su questo punto, alla saggezza della soluzione di Spinoza ha chinato
la testo persino Hegel, che aveva tentato di salvare la concezione cartesiana
della libertà con una interpretazione antimaterialistica della necessità
mondiale, quale necessità di uno “spirito assoluto”, necessità
puramente logica. Tuttavia, nello schema della soluzione del problema egli si
schierò dalla parte di Spinoza, contro Kant e Fichte.
Sia l’impostazione, sia la soluzione spinoziana del problema psicofisico
ne fanno valicare i confini dal suo contenuto specifico. La grandezza di Spinoza
e il suo valore immutabile nella storia della filosofia, della scienza e della
cultura consistono nel fatto che egli ha posto in modo straordinariamente acuto
e senza compromessi le condizioni per una giusta impostazione e soluzione non
solo di questo, ma di qualsiasi simile problema scientifico. Queste condizioni
racchiudono in sé il principio del monismo materialistico, il cui valore
filosofico e metodologico si riduce ad una formula semplice, ma densa: spiegare
il mondo materiale in se stesso senza aggiunte estranee, ma anche senza “sottrazioni”
mutilanti: non riduzione di serie direttamente opposte di fenomeni a ciò
che di comune c’è in ognuno di essi, [421] presi separatamente, ma, al
contrario, deduzione di fenomeni diversi e opposti l’uno all’altro da una causa
primordiale comune, e d’altronde assolutamente corporea, che genera e l’uno e
l’altro. La via dello sdoppiamento della stessa cosa in opposizione, la
via della “deduzione materialistica”.
Spinoza aveva capito in modo preciso che se fossero presi gli opposti
empiricamente evidenti (l’anima e il corpo, la ragione e la volontà, l’intelletto
e gli “affetti” e così via) come un dato preliminare, fissandolo fin dall’inizio
come delle serie di fenomeni autoescludenti se stessi, il compito di ricercarne
l’unità e il necessario legame reciproco sarebbe divenuto automaticamente
irrisolvibile. Spinoza vide un’unica alternativa a questa via, che conduceva
al vicolo cieco del dualismo cartesiano, nel metodo inverso, che scaturiva da
una chiara concezione di una data unità alla base e che quindi individuava
come e perché tale “medesima cosa” generasse due forme non solo
diverse, ma anche opposte di espressione propria. Perciò Spinoza si pone
del tutto consapevolmente sul terreno del principio dialettico dello “sdoppiamento
dell’unità” (V.I. Lenin), che solo porta alla comprensione
(alla conoscenza) del reale legame di fenomeni, che appaiono alla nostra mente
come autoescludenti se stessi e quindi “incongiungibili”.
Nella forma più generale, è la via dell’autore del
Capitale, la forma logica di una visione del mondo sostanzialmente storica,
mirante a chiarire il reale “prodursi”, originarsi delle differenze e degli opposti
empiricamente evidenti. Il principio, quindi, della deduzione, che oggi
si contrappone al “riduzionismo”, il cui segreto consiste nei vani tentativi
di ridurre la concreta varietà dei fenomeni della natura e della
storia ad una triste monotonia, ad una «unità» formalmenteletale di
fatti non omogenei, ad un sostituto artificioso della vera comprensione del loro
vivo e contraddittorio legame nell’ambito dell’infinita totalità della
natura.
Proprio per questo ancor oggi i positivisti odiano talmente Spinoza
e il suo principio della “sostanza”. La “logica della scienza” da loro costruita,
in effetti, non è congiungibile con questo principio, perché scaturisce
dall’idea infantile che ogni “unità” di conoscenza teorica è creata
solo dal linguaggio ed esiste solo nel linguaggio, nel “linguaggio della scienza”,
mentre al di fuori di esso ci sarebbe solo la “varietà” slegata e puramente
soggettiva di impressioni ed “esperienze” sensoriali.
Se l’una o l’altra caratteristica (ad esempio il costo, la misura [422]
aritmetica, la forma spaziale, l’informazione ο l’organizzazione ecc.)
viene considerata di “per se stessa” come un “oggetto astratto” particolare,
e le cose, che posseggono questa caratteristica, solo come suoi “portatori”,
anch’essi “di per se stessi”, questa caratteristica si trasforma immediatamente
in una particolare “essenza” e acquista proprietà mistiche, simili alle
proprietà dell’ “anima”, solo incarnatasi nelle cose materiali, ma del
tutto indipendente da esse per la sua “natura” e semplicemente incommensurabile
con esse. Tali sono “i numeri e le figure” dei pitagorici, la εντελέχεια
(ο la “forza vitale”) dei vitalisti, il “costo” negli economisti volgari,
“la struttura” e “il sistema” degli strutturalisti, la tecnica, la tecnologia,
le norme giuridiche e i “valori” morali dei sociologi borghesi, i “segni” e i
“valori” dei positivisti logici ecc. per ogni particolare gruppo di fenomeni,
un particolare principio di spiegazioni. La “filosofia della scienza” positivista
trasforma precisamente simili astrazioni, creazioni artificiose della mente in
“oggetti” propri e, per conseguenza, sorge il problema per essa irrisolvibile
di collegare gli “oggetti” della scienza ed i suoi “oggetti”, le parole e le
cose, i “segni” e i “valori”, i concetti scientifici con l’esperienza, la prassi,
con le “realtà banali” della vita quotidiana, come si è espresso
il noto positivista F. Frank.
Per Spinoza l’unità interna dei fenomeni della natura e
della vita umana è un principio fondamentale e un fatto non meno reale
che la varietà che sorge all’interno di essa. Per i positivisti, l’una
e l’altra esistono solo all’interno del corpo: la varietà è nella
sua sensorialità, mentre l’unità è solo nella parola, nel
linguaggio. Non è difficile comprendere che si tratta di posizioni opposte.
La posizione di Spinoza è un materialismo illuminato, che estende i suoi
principi alla comprensione della natura e della vita dell’uomo, includendovi
la sua attività conoscitiva. La posizione dei neopositivisti è
una riduzione, che riduce tutto alle astrazioni della fisiologia e della linguistica
— un idealismo psicofisiologico, che contrappone in anticipo gli avvenimenti,
che si compiono nel cervello dell’uomo, agli avvenimenti del mondo che lo circonda.
Non è difficile comprendere che la visione in linea di principio
monistica di Spinoza riguardo a queste due serie di avvenimenti assume anche
ai giorni nostri un valore euristico inapprezzabile, e infatti non ancora pienamente
apprezzato, per la soluzione di problemi delicati come quelli delle relazioni
reciproche tra la psicologia e la fisiologia del sistema nervoso superiore, del
rapporto tra il “segno” [423] e il suo “valore”, delle relazioni tra i processi
psichici e il comportamento “esterno” ecc. Dell’attualità di Spinoza su
questo piano ha scritto più volte l’eminente psicologo sovietico L. Vygotskij.
È forse casuale il fatto che il grande Einstein voleva scegliere
come arbitro filosofico della sua controversia filosofica con Niels Bohr proprio
il vecchio Spinoza? Qui tutta la questione si riduceva all’una o all’altra interpretazione
del problema dell’ “osservatore” dei fenomeni fisici. L’uomo osserva gli avvenimenti
del mondo fisico come un cittadino a pieni diritti e come rappresentante di questo
mondo, come una sua particella, subordinata a tutte le leggi fisiche senza eccezione,
oppure ad osservare questi avvenimenti è 1’ “intelletto” incorporeo, matematizzante,
che riguarda la natura dall’ “esterno” e non ha nulla in comune con essa?
Una delle due cose: o il monismo coerente e materialistico di Spinoza,
o il dualismo, il pluralismo e il relativismo, che smembra la viva unità
della natura e dell’uomo e perviene quindi inevitabilmente non solo alla contrapposizione
della “logica della scienza” (“ordine delle idee”) alla logica delle cose, ma
anche allo smembramento dello stesso soggetto della conoscenza, la ragione umana,
in un gran numero di scompartimenti malamente legati tra di loro, subordinati
a “logiche” diverse (ad esempio, la “logica della conoscenza empirica” e la “logica
della scienza”, la “logica della matematica” e la “logica delle scienze induttive”
ecc). Ciò è comprensibile: lo “studioso” o 1’ “osservatore”, che
ha a che fare con astrazioni morte, rappresenta se stesso come null’altro che
un’astrazione, separatasi dal reale soggetto della conoscenza, dall’uomo reale,
che agisce a mò di oggetto in un mondo reale.
L’idea-cardine dello spinozismo è la convinzione della necessità
di un sistema unitario, comune sia alla natura delle cose che alla ragione, una
logica comune, che determini, come diceva Spinoza, «l’ordine e la connessione
delle idee» in accordo con «l’ordine e la connessione delle cose». Nel caso contrario
la ragione, che segue una sua logica “specifica”, non è in grado di generare
nient’altro che disordine. Le astrazioni non sono oggetti del pensiero e della
conoscenza, ma i suoi mezzi, una sorta di “cartelli stradali indicatori”, che
aiutano l’uomo ad orientarsi nell’intricato labirintc della natura. Il compito
di una vera mente consiste nel collocare in modo giusto questi indicatori ai
bivi e agli incroci delle strade che non la “scienza di per se stessa”, ma la
scienza nel suo legame inscindibile con la prassi esplora e trasforma in ampie
arterie. [424]
Solo la dialettica materialistica è capace ai giorni nostri
di esercitare il ruolo di una tale logica dello sviluppo della scienza e della
cultura. Naturalmente Spinoza non ha creato né poteva creare una simile
logica. Tuttavia, il problema della creazione proprio di una tale logica fu in
sostanza da lui posto, e la odierna dialettica è inconcepibile senza ciò
che ha fatto Spinoza.
La Natura conosce se stessa tramite l’uomo? Oppure a contemplarla
e a conoscerla è un certo “intelletto” incorporeo e non spaziale, librantesi
fuori degli spazi, e collegato non si sa come con la carne peccaminosa dell’uomo-scienziato?
La risposta di Spinoza è attuale ed univoca anche ai giorni
nostri. A conoscere la Natura non è la “mente”, lo “spirito” o la “ragione”,
ma l’Uomo corporeo-spaziale del tutto reale, che possiede una mente, uno spirito,
una ragione. In altre parole, tramite l’Uomo viene realmente conosciuta (conosce
se stessa) la natura nella sua infinità, e non quei particolari stati,
che prova in se stesso il “soggetto” incorporeo dell’idealismo, 1’ “anima” cartesiana
o lo “spirito assoluto” di Schelling e Hegel, la “volontà” di Shopenhauer
o la “pura informazione”, dei tardi seguaci di Aristotele, che ancor oggi continuano
a ragionare della percezione della “forma pura” senza materia. Su tutte queste
e simili concezioni Spinoza ha tracciato una grossa croce già trecento
anni fa. Perciò è stato per trecento anni e resta uno dei combattenti
più validi nella lotta del materialismo contro l’idealismo in tutte le
sue chiassose varianti, comprese quelle che indossano le vesti di “scienza contemporanea”
e ricorrono al “linguaggio della scienza”.
Ai suoi tempi egli usava il linguaggio della teologia, difendendo
gli interessi della scienza. Questi usano il linguaggio della scienza, difendendo
gli interessi della superstizione. In ciò si annida la differenza principale.
Da quanto detto sopra dovrebbe apparire chiaro che non vi è
nulla di più falso e ingiusto che accusare Spinoza di non essere attuale.
L’atteggiamento verso Spinoza è l’atteggiamento verso il suo principio
— il principio del materialismo coerente, monistico, combattivo. E se la società
contemporanea borghese non accetta l’essenza della filosofia spinoziana, la spiegazione
di ciò va cercata in essa stessa, nei suoi principi.
Il “segreto” dell’atteggiamento verso Spinoza da parte della filosofia
borghese contemporanea può essere svelato, utilizzando le parole di Marx,
rivolte ad un’altra epoca, ma che conservano la loro [425] forza sia per l’epoca
di Spinoza che per il capitalismo contemporaneo: «... Così la farfalla
notturna, dopo che il sole è tramontato per tutti, cerca la luce delle
lampade, che gli uomini accendono ciascuno per se stesso» (K. Marx e F. Engels,
Iz rannikh proizvedeni), [Dalle opere giovanili], Mosca, 1956,
pag. 197).
Spinoza era figlio del proprio tempo, ma non un suo apologeta,
era l’ideologo della borghesia in ascesa, ma non fu mai l’esecutore testamentario
dei piccoli bottegai, né dei grossi affaristi — egli era la coscienza
dell’epoca e perciò espresse non solo le sue contraddizioni e conflitti,
gli evidenti errori e le “oneste illusioni” ma anche le sue delusioni e le sue
speranze. Le speranze che fosse possibile un tale assetto della vita, in cui
la luce delle “lampade” non si spegnerà dinanzi alla luce del “sole comune”
e che l’uomo sarà degno del nome di “uomo ragionevole”, in cui egli apparirà
dinanzi alla totalità della natura nella integrità di tutto il
suo essere.
Quest’anno a febbraio è ricorso il trecentesimo anniversario
della morte di Spinoza, in dicembre ricorreranno trecento anni della pubblicazione
della sua Opera posthuma. Ciò è simbolico: l’anno della
morte di Spinoza è diventato l’anno della nascita del suo pensiero immortale
per l’umanità. [426]